Parashat Bo – Lo straordinario ordinario
Roberto Maggioncalda – Derashà al Tempio di Via Eupili
Dam, Tzfardea, Kinnim, Arov, … Così a Pesach, le 10 makot, le 10 piaghe che HaKadosh Baruch Hu inflisse agli egiziani in Egitto. Oggi abbiamo ascoltato il racconto delle ultime tre: Arbè (cavallette), Choshech (le tenebre), Makat Bechorot (morte dei primogeniti). Per chi erano le piaghe, a chi erano dirette? Agli egiziani, naturalmente. Però, oggi, siamo noi, ancora, a raccontarle e ricordarle, mica loro! Le piaghe sono rimaste, per noi e non per altri, come ricordo dell’intervento di HaKadosh Baruch Hu in nostro favore. E perché?
Abbiamo forse bisogno di ricordarci dei miracoli avvenuti in nostro favore per essere certi di quanto accadde, per sapere come stiano le cose?
Secondo me no, almeno non per questo motivo.
E’ necessario, è centrale ricordare e raccontare gli avvenimenti di Pesach per sapere che HaShem intervenne direttamente in nostro favore, per capire la logica d’insieme dei fatti. Per essere consapevoli che questo avvenne affinché, successivamente, potesse verificarsi il Matan Torà e lo stipularsi del patto tra Dio ed il Popolo Ebraico.
Tuttavia questi miracoli, e quelli subito prima e subito dopo, non servono a dimostrare qualcosa ai nostri occhi.
L’episodio che ci fonda, quello al quale tutti, indistintamente, abbiamo partecipato, non è Pesach, ma è il Matan Torà.
A Pesach dobbiamo raccontare come se fossimo stati personalmente liberati.
Sotto il Sinai ci eravamo invece proprio tutti, di persona.
E’ il Sinai il nostro big bang, ciò che ci rende testimoni oculari e non solo testimoni indiretti, quello fa sì che l’Ebraismo sia considerabile come una forma di sapere e non una fede.
Dunque le piaghe e i miracoli di Pesach servono a ricordarci da dove veniamo. Perché questo deve indirizzare tutti i nostri comportamenti.
(Per esempio come comportarci verso la vedova e lo straniero).
Ma non a dimostrare qualcosa.
OK, pensiamo però ora ai miracoli per un momento.
Oggi, nella nostra vita quotidiana, niente più miracoli?
Sono finiti?
Non ci sono più né servono più a nulla?
Eppure, ogni mattina, appena svegli, eccoci a dire:
“Modè/Modà ani lefanecha Melech Chai vechaiam, shehechezarta bi nishmatì bechemlà rabà emunatechà”
“Ti ringrazio, Re vivente ed esistente, che mi hai restituito con misericordia la mia anima; grande è la tua fedeltà”
Cioè a riconoscere, come prima cosa, che il risveglio mattutino è di per è miracoloso.
Più tardi, a shachrit, declamiamo il potere di HaShem di compiere miracoli:
“Ki hu levadò marom vekadosh, poel ghevurot, ‘osèh chadashot”
“Poiché Egli solo eccelso e santo, opera prodezze straordinarie e inaudite”
E, pochissimo dopo, il fatto che la realtà sia sorretta da una volontà continuamente all’opera:
“Hamchaddesh tuvò bechol iom tamid ma’asè vereshit”
“Egli che con bontà ogni giorno incessantemente dà nuova vite alle cose create”
Il fatto è che – sebbene la cosa passi completamente inosservata – la più assoluta normalità, la regolarità del mondo, la sua esistenza, non è cosa necessaria.
Le cose potrebbero stare diversamente.
Ciò che è potrebbe non essere.
Le “leggi di natura” potrebbero non esistere.
Tutto si rinnova ad ogni istante anziché sparire nel nulla.
A sostenere tutto quanto l’immenso e meraviglioso universo deve ben esserci una volontà continuamente attiva!
Il mondo è retto e governato, e, per dirla con una frase giustamente famosa, “Dio non gioca a dadi”.
E’ questo il miracolo più grosso. Un miracolo perpetuo, del quale si rischia di non accorgersi.
Il miracolo non dei buchi neri, non dei panorami mozzafiato dalla vetta dei monti, non dei terremoti, non dei fenomeni inspiegabili, eccetera eccetera.
Bensì il miracolo di un qualunque evento minuscolo, che avviene secondo leggi non deducibili logicamente in alcun modo, leggi che potrebbero cessare di esistere ad ogni istante, leggi che esistono e che ci consentono di essere.
Per dirla filosoficamente, la metafisica è alla base e a sostegno della realtà. La fisica e la scienza sono impossibili senza la metafisica.
Le “prodezze straordinarie ed inaudite” della tefillà sono ogni istante davanti ai nostri occhi, nascoste in piena vista, come si direbbe in inglese, da quella che, a torto, consideriamo la banale normalità.
D’altronde, in fondo, che la normalità prevalga sull’eccezionalità non è forse uno dei messaggi di base dell’ebraismo?
Le mizvot sono una straordinaria palestra in questo senso.
L’ebraismo non è fatto di slanci mistici straordinari, ma della più banale, sconcertante, minuziosa normalità. Una normalità che richiede però uno straordinario impegno, attenzione, amore nel giocare con costanza il nostro ruolo, normalissimo e di postata cosmica.
Non viviamo una cultura dello straordinario, ma una dell’ordinario,
Shabbat prevale sui moadim e su quasi tutte le circostanze della vita.
Lo stesso calendario annuale delle feste traccia un percorso che dallo straordinario – “violentemente” miracoloso – piano piano, ci conduce all’ordinario più comune, e all’apprezzamento del miracolo nascosto:
A Pesach tutto è non solo miracoloso, ma opera di Dio in persona. Anche gli Angeli si fano da parte. Tutto è compiuto direttamente da Lui.
A Shavuot si compie il destino per il quale è avvenuta la liberazione dalla schiavitù. Gli Ebrei passano da una tirannia idolatra al sottomettersi al Regno dei Cieli.
A Succot celebriamo la fine dei raccolti nella gioia e risiediamo nelle capanne accogliendo l’umanità intera sotto la volta dei cieli.
A Chanuccà l’azione è tutta umana. Dio si limita a far sì che l’olio duri otto giorni anziché uno.
A Purim infine Dio si eclissa del tutto. La sua opera è completamente nascosta, invisibile. Eppure sappiamo ormai che è tanto presente a Purim quanto lo era a Pesach.
Occorre maturità, sensibilità, esperienza per capirlo. Queste sono proprio le caratteristiche da acquisire nel percorso allestito da Dio.
All’inizio, a Pesach, provvede all’educazione del popolo come a quella di un bambino. Tutto è palese, evidente.
Poi l’evidenza, piano piano, va via, sparisce dalla scena visibile.
Gli ebrei, noi, veniamo allevati istruiti, la nostra sensibilità educata e raffinata, e continuamente stimolata, fino a consentirci di percepire l’infinita meraviglia, la continua eccezionalità della “vita normale”.
Finché non siamo in grado di cogliere la trama fine della realtà.
… finché, tutti insieme, non sappiamo cantare, di fronte all’immensità del mondo “non miracoloso” che abitiamo:
“Hamchaddesh tuvò bechol iom tamid ma’asè vereshit”
“Egli che con bontà ogni giorno incessantemente dà nuova vite alle cose create”