Parashat Tazria – Soffrire per amare

12/04/2024 Off Di Redazione

Yisurim shel ahavà – sofferenza d’amore – sembra essere un ossimoro. In generale, non causiamo sofferenza alle persone che amiamo, al contrario, tendiamo a fare del nostro meglio per proteggerli dalla sofferenza e per porvi fine se già soffrono. Tuttavia, il Talmud sembra parlare di questa sofferenza come di un livello da raggiungere: Rabba, e alcuni dicono, Rav Chisda, dice: Se un uomo soffre, esamini la sua condotta, poiché è detto: “Cerchiamo e proviamo le nostre vie, e torniamo a D-o” (Echà 3:40). Se fa un esame di coscienza e non trova nulla [di discutibile], lo attribuisca alla negligenza dello studio della Torà, poiché è detto: “Felice è l’uomo che Tu castighi, D-o, e a cui insegni mediante la Tua legge” (Tehillim 94: 12). Se lo ha attribuito [a questo], e tuttavia non ha trovato [la causa], allora soffre di amore, come è detto: “D-o corregge chi ama” (Tehillim 3:12). (Berachot 5a). Perché, ci si potrebbe chiedere, una persona giusta dovrebbe essere costretta a soffrire? Non dovrebbe soffrire, poiché sembra essere una profanazione del Nome di D-o, facendo sembrare che non ci sia giustizia. Rashi spiega che questo è il modo in cui D-o purifica la persona giusta da ogni peccato in questo mondo, in modo che Egli possa aumentare la sua ricompensa nel mondo a venire.

Ciò che è interessante, è che il Talmud utilizza tre diversi versetti per esprimere quello che all’apparenza è lo stesso concetto. In realtà lo fa per riferirsi a tre diversi tipi diversi di persone. Una di queste è l’individuo le cui azioni sono riprovevoli: Costui non è sempre in grado di apprezzare il valore degli yisurim e mentre soffre si considera una persona sfortunata. Al contrario, l’individuo che è attento a come agisce, ma non altrettanto alle opportunità di crescita personale e spirituale, può apprezzare il valore degli yisurim. Cerca di essere il più giusto possibile, osservando le mitzvot ed evitando i peccati che può, è in contatto con D-o e riconosce la Divina Provvidenza quando ne viene in contatto. Colui le cui azioni sono perfette e il cui apprendimento della Torà è massimizzato non solo è contento che D-o interferisca nella sua vita per renderlo migliore, ma può percepire l’amore di D-o anche attraverso la sofferenza, e ama D-o a sua volta. Crede nel mondo a venire, non solo in teoria, ma anche in pratica, dimostrandolo tramite le sue azioni. Non si tratta però di un masochista. A differenza di altre religioni del passato, un tale tzaddik non va in cerca del dolore ma, a fronte degli yisurim, nonostante la sua vita quasi perfetta, si impegna per un miglioramento ed una crescita personale e spirituale, proprio come ha fatto per ogni altro aspetto della sua vita.

Si può stabilire una connessione tra questi tre tipi di persone, il loro approccio alla vita, e i tre gradi di tzara’at descritti nella Parashà di questa settimana e in quella della prossima: La tzara’at della casa, e tutto ciò che comporta, dovrebbe essere sufficiente per invocare la teshuvà e il timore di forme ancora più dirette di punizione divina. Perché non lo è? Tutti commettono errori, anche le persone giuste, come ci ricorda Shelomo haMelech: “Poiché non c’è uomo giusto sulla terra che faccia solo il bene e non pecchi mai. (Kohelet 7:20) Come sottolinea il Talmud, la differenza tra uno tzaddik e una persona malvagia non è solo basata sulle mitzvot, ma su come ciascuno risponde al fallimento spirituale. Come abbiamo già accennato, lo tzaddik non va in cerca di punizioni, ma è colui che impara dai propri errori. Se gli dovesse capitare di commettere un qualsiasi peccato che porta la tzara’at sulla sua casa, gli basterà ravvedersi: Dopo ringrazierà D-o per avergli fatto notare il suo errore. La persona media, non tanto amante della critica quanto la persona giusta, potrebbe non rispondere alla tzara’at sulle sue mura con la stessa adeguatezza dello tzaddik e, di conseguenza, commettere errori di nuovo. Tuttavia, nel momento in cui la tzara’at comparirà sui suoi vestiti, farà la teshuvà che avrebbe dovuto fare prima. Colui che si trova ad un livello spirituale inferiore, non sarà troppo turbato dalla tzara’a sui suoi vestiti e, nonostante potrebbe essere imbarazzante, potrebbe anche razionalizzare. Questa persona ha bisogno di un risveglio spirituale molto più drastico, la tzara’at sul corpo, che lo obbliga ad affrontare la malattia spirituale e fare ammenda. Quando la Divina Provvidenza bussa, non si può fingere di non sentire.

Nella vita di oggi, anche se non abbiamo la tzara’at, gli yisurim funzionano allo stesso modo. Quando una persona ha piccoli problemi, tende a ignorarli, dando per scontato che scompariranno da soli col tempo o che sarà in grado di affrontarli. Tuttavia, man mano che i problemi più piccoli diventano più grandi, diventano sempre più difficili da ignorare Tali problemi forzano la mano di chi soffre e lo inducono a porsi delle domande. Di fronte a questo, è naturale mettersi sulla difensiva e incolpare qualcun altro. La legge stessa però riconosce che in questo mondo ci sono dei colpevoli e degli innocenti, e quando trattati di conseguenza, la Shechinà risiede tra gli uomini. D’altra parte, tutto è una funzione della Divina Provvidenza, e tutto ciò che accade a una persona è per il suo bene e per la sua crescita.

Possiamo dare la colpa della nostra sofferenza agli altri ma, alla fine, dobbiamo essere coscienti che qualunque cosa accada, in qualunque forma, non importa quanto grave, è parte del nostro tikun, miglioramento, personale. Il modo per poterlo fare è descritto nella Torà stessa. Attraverso le mitzvot, gli atti di chesed, di giustizia, saremo in grado non solo di migliorare noi stessi ma anche di ispirare il prossimo.

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