Parashat Ki Tavo – Tradurre senza tradire

01/09/2023 Off Di Redazione

Esiste un detto in italiano che recita “tradurre è tradire”. Nessuna traduzione è esattamente accurata ed esprime lo stesso concetto con le medesime sfumature della lingua originariamente usata per esprimere un concetto e le idee espresse in una lingua perdono inevitabilmente parte del loro significato quando vengono tradotte in un’altra lingua. Negli ultimi anni sono state pubblicate molte traduzioni di testi scritti originariamente in ebraico e questo ha reso un servizio al pubblico portando testi che molti potevano trovare difficili alla loro portata, anche se in una forma tutt’altro che perfetta.

Queste riflessioni ci portano alla Parashà di questa settimana, Parshat Ki Tavo (Devarim 26:1-29:8), e ad analizzare i versetti seguenti: “Non appena avrai attraversato il Giordano per entrare nel paese che il Signore tuo D-o ti dà, erigerai grandi pietre, le rivestirai di intonaco e inciderai su di esse tutte le parole di questo insegnamento… Su quelle pietre inciderai ogni parola di questo Insegnamento nel modo più distinto” (Devarim 27:2-3 e 8). Che cosa intende insegnarci la Torà tramite le parole baer hetev, qui tradotte come “nel modo più distinto”? Il Talmud nel Trattato di Sotà pagina 32b suggerisce che l’iscrizione dell’”Insegnamento”, cioè la Torà, doveva essere fatta in settanta lingue, in ogni lingua conosciuta dall’umanità. Sembra però in qualche modo una contraddizione su quanto detto riguardo le traduzioni: Lo stesso Moshè, parlando a nome di D-o, ordina al popolo ebraico di impegnarsi in una traduzione, senza preoccuparsi, apparentemente, delle difficoltà di tradurre la parola di D-o dall’ebraico alle altre lingue. Per quale motivo dunque sarebbe necessario tradurre la Torà in altre lingue? I Chachamim offrono due risposte molto diverse a questa domanda. Il Talmud Yerushalmi adotta un approccio universalistico e suggerisce che queste traduzioni avrebbero dovuto portare gli insegnamenti della Torà al mondo intero. Lo Zohar, di contro, rileva che i membri del Sanhedrin conoscevano tutte le settanta lingue del mondo, intendendo con questa frase, che le settanta lingue rappresentano una metafora dei settanta aspetti della Torà, delle settanta diverse vie di interpretazione di cui è dotata la Torà. I membri del Sanhedrin sono quindi esperti nel sondare le profondità del significato della Torà. Allo stesso modo potrebbe essere che le settanta lingue incise sulle pietre del fiume Giordano non fossero le lingue dei popoli del mondo, ma settanta codici che permettevano tanti approcci diversi all’interpretazione della Torà.

Alla luce degli insegnamenti riportati, potremmo quindi anche intendere la parola linguaggio in un senso più ampio, riferito ad una modalità cognitiva o ad uno stile di apprendimento. Alcuni di noi preferiscono un linguaggio visivo, mentre altri preferiscono il linguaggio della logica e della ragione. Parliamo di linguaggio arrabbiato, linguaggio rassicurante e linguaggio dell’amore. La musica è una lingua, il gioco è una lingua e c’è anche la lingua della guerra. Ogni bravo insegnante sa che deve usare “linguaggi” diversi per studenti diversi. Questo significa che alcuni studenti risponderanno a spiegazioni chiare e logiche, mentre altri richiederanno aneddoti e storie, altri ancora illustrazioni visive dell’argomento insegnato. Questa è la lezione che ogni insegnante di successo prima o poi impara: Non esistono due individui che imparano allo stesso modo.
Forse è proprio questo che insegna il Talmud nel Trattato di Sotà. Su quelle pietre nel fiume Giordano erano incise settanta diverse strategie di insegnamento, settanta strumenti pedagogici, che avrebbero consentito ad ognuno ad apprendere la Torà nel proprio modo peculiare. La stessa interpretazione dello Zohar riguardo le “settanta sfaccettature della Torà” potrebbe alludere ai settanta diversi stili di apprendimento, incoraggiando gli insegnanti a identificare una “pietra nel fiume Giordano” adatta ad ogni allievo, anche a quelli che in superficie sembrano irraggiungibili.

Questa lezione si riflette in tutta la letteratura talmudica. Ad esempio: “Osserva l’eccellente consiglio datoci dal Tanna Rabbi Yehoshua ben Perachya: ‘Fatti un insegnante e procurati un amico…’ Se fai questo scoprirai che il tuo insegnante ti insegnerà Mikra, Mishna, Midrash, Halachot e Haggadot. Tutto ciò che non è trasmesso attraverso la Mikra (Scrittura) sarà trasmesso attraverso la Mishna; Tutto ciò che non è trasmesso attraverso il Midrash sarà trasmesso attraverso le Halachot; tutto ciò che non è trasmesso attraverso le Halachot diventerà chiaro grazie allo studio delle Haggadot. Così lo studente siederà al suo posto e si riempirà di tutto ciò che è buono e benedetto.” (Avot DeRabbi Nathan, 8:1). Alcuni Chachamim portano un’interpretazione più letterale, interpretando le parole baer hetev come comandamento per fare sì che la scrittura su queste pietre dovesse essere chiara a tutti, opera di un artista. Queste pietre, similmente alle mezuzot che si mettono sullo stipite delle nostre case, dovevano essere collocate all’ingresso di Eretz Israel.

Questi versetti, la collocazione delle pietre e queste interpretazioni dei Chachamim non si applicano solo allo studio. Gli insegnamenti che ne ricavano i Chachamim, anche se apparentemente in contrasto, sembrano portare ad un ammonimento sul nostro modo di esprimerci e di comunicare, sulla shemirat halashon. In questo mese di Elul che ci porta a Rosh haShana e Kippur dobbiamo fare nostro questo insegnamento, pensare a come ci esprimiamo e a come possiamo migliorare conseguentemente il nostro rapporto con il prossimo.

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