Parashat Ki Tetze – Nascondersi da noi stessi

25/08/2023 Off Di Redazione

Nel capitolo 22 del Libro di Devarim è scritto che quando vediamo smarrire i buoi o le pecore di qualcun altro, non dovremmo rimanere indifferenti. In altre parole, la Torà prende sul serio la proprietà privata e parla della responsabilità di ogni membro della comunità di prendersi cura degli averi di un altro. Più profonda della legislazione civile, però, è la formulazione usata nel versetto: La traduzione abituale è “non dovresti essere indifferente”, ma la traduzione letterale è “non dovresti scomparire”. La Torà, tramite questa forma usata per darci questa mitzva, ci ricorda che questo è un atteggiamento che tendiamo continuamente ad avere, e spesso lo facciamo con noi stessi. Svaniamo distogliendo lo sguardo, lo facciamo, anche da adulti, fingendo di non esistere, facciamo finta di non vedere, ma in realtà ci stiamo nascondendo. Non desideriamo essere visti, perché essere visti significa essere in qualche modo responsabili. Ci nascondiamo con le nostre parole. Dire la verità è mostrare a qualcuno chi siamo realmente.

Nella Parashà di Ki Tetze ci sono altre allusioni a cose che nascondiamo, allusioni che si adattano al mese di Elul che ci porterà alle prossime Festività. C’è un passaggio sul prendere una bella donna prigioniera in guerra e decidere di sposarla. Il Rebbe di Muglenitz (una chasidut polacca) suggerisce che questo versetto rappresenta un’analogia con la propria anima. C’è una parte bellissima dell’anima, ma è prigioniera. Non la riconosciamo né la celebriamo, ma la Torà ci insegna a “sposare” quella parte di noi stessi che è nascosta anche a noi. La Parashà si conclude con l’ammonizione a ricordarsi di dimenticare Amalek. La frase è “Lo tishkach” – non dimenticare. Questa formulazione richiama la descrizione usata per trasmettere i Dieci Comandamenti: “Lo tirtzach… Lo tignov” – non uccidere, non rubare. Secondo i Chachamim, Amalek rappresenta una metafora dello yetzer hara, l’inclinazione al male. La tradizione ebraica comprende che il male esiste nel mondo, ma sa anche che si può nascondere ciò che accade dentro noi stessi esteriorizzandolo. Una persona adirata, per esempio, vede la rabbia negli altri, il vanaglorioso non può tollerare che l’amico si vanti. Come insegna il Baal Shem Tov, ogni volta che qualcosa ci disturba in un’altra persona, ci dovremmo chiedere dove si trova quella stessa caratteristica in noi stessi.

Localizziamo Amalek non solo nel mondo esterno ma nelle nostre stesse anime. Quando ci confessiamo al plurale durante Yom Kippur, confessiamo peccati che pensiamo di non aver commesso perché è troppo facile collocarsi fuori dalla cerchia dei peccatori. Eppure tutto ciò che la Torà insegna sul mondo, lo insegna anche su noi stessi e relativamente alle nostre anime. La prima domanda nella Torà è quella che D-o pone ad Adam: Dove sei? e Adam risponde che si stava nascondendo. Questo è il mese di Elul, è il momento di presentarsi, di farsi parte attiva.

Rabbenu Bechaye espande l’insegnamento che deriva dal versetto relativo alla restituzione degli oggetti perduti. Nel suo commento scrive che in questa mitzva oltre al semplice atto di restituire l’oggetto, c’è di più. Se una persona è in grado di rendere un servizio utile al suo prossimo e di proteggerlo così da una perdita finanziaria o da altre tipologie di danno, tutto questo fa parte non solo della mitva descritta in questo versetto ma fa anche parte della mitzva riportata nel libro di Vaykrà nel versetto 19,18: “ama ciò che è del tuo prossimo come se fosse tuo” Rabbenu Bechaye, in questo commento, riporta anche un approccio midrashico. Le parole: “ti nasconderai da loro”, che vengono usate nel versetto 4, qualche versetto dopo, si riferiscono a ciò che potresti riuscire a fare nei confronti del tuo prossimo per il suo bene, mentre le parole: “non devi nasconderti da loro” riportate in questo versetto, si riferiscono a D-o che conosce le nostre motivazioni e che non possiamo ingannare fingendo di non aver trovato l’oggetto o l’animale la cui restituzione potrebbe potenzialmente causare disagi personali o spese a carico nostro, quello che per noi potrebbe rappresentare un onere che non vorremmo accollarci. Si tratta quindi di una responsabilità sociale, rispetto alla quale non solo non dobbiamo nasconderci, ma per la quale dobbiamo farci parte attiva. Il Malbim commenta: Ci si aspetta che le persone piene di carattere non si fermino alla “corda del dovere rigoroso” quando si tratta di salvare i loro vicini e aiutare i loro vicini, ma facciano ciò che loro stessi non farebbero per il proprio bene nel loro caso, e questo fare di più, come obbliga propriamente la Torà nei confronti del prossimo, è tuttavia considerato un’esigenza così grave di equità e di benevolenza sociale che vi è associato l’importante detto: Gerusalemme perì solo perché nel loro comportamento reciproco lasciarono prevalere solo i principi di stretta giustizia e non quelli di equità e benevolenza filantropica.

La Torà non è solamente un libro descrittivo di storie accadute ai nostri patriarchi o un freddo elenco di statuti e leggi. La parola stessa, Torà, deriva dalla radice della parola insegnare. La Torà è un insegnamento dato agli uomini ma che è anche adatto agli uomini, perché a conoscenza della natura umana. Attraverso queste mitzvot la Torà ci insegna quanto sia importante fare uscire la parte migliore di noi stessi, evitare di nasconderci, caratteristica che, anche se rappresenta spesso la soluzione più comoda, non rappresenta la soluzione migliore, né per noi stessi né per il prossimo. Per usare le parole del Rebbe di Muglenitz, la Torà ci incoraggia a fare uscire la parte più bella della nostra anima, per il nostro bene e per il bene degli altri.

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