Parashat Mikketz – Imparare le cose importanti

02/12/2021 0 Di Redazione

La lettura della Parashà di Mikketz, che si presenta sempre a Channukà dovrebbe certamente aiutarci a comprendere gli eventi storici ai tempi dei Chsahmonaim, ma c’è così tanto da fare e da vedere che rischiamo di trascurare le storie su Yosef, i sogni del Faraone e i ripetuti viaggi dei fratelli di Yosef in Egitto per procurarsi il cibo.
Se leggiamo sommariamente la parashà, perdiamo il significato del calice “che appare stranamente” nel sacco di Binyamin, calice che Yosef, non riconosciuto dai propri fratelli, ordina al suo servo di mettere nel sacco dopo uno degli incontri con i fratelli in Egitto (Bereshit 44:2). Poco dopo (Bereshit 44:5), Yosef ordina ai suoi servi di inseguire i fratelli, accusandoli di aver rubato il calice che “usa per compiere la divinazione” (“nachesh yenachesh bo”). Questo fa eco ad un confronto simile avvenuto molti anni prima, quando Lavan accusò Yaakov di aver rubato i suoi idoli. Similmente a Yaakov che negò l’accusa di Lavan (Bereshit 31,32), dicendo che «chi scoprirai che li possiede non vivrà», non sapendo che Rachel li aveva presi, i fratelli di Yosef dicono (Bereshit 44,9): «Chi le ha con se morirà e il resto di noi diventerà vostri schiavi”. Yosef rimprovera i propri fratelli quando viene ritrovata la coppa, dicendo (Bereshit 44,15) “che cosa avete fatto? Non vi rendete conto che una persona come me poteva certamente indovinare attraverso la divinazione? (nachesh yenachesh ish asher kamoni).”
Qui sorge una difficoltà: come possono accettare i fratelli di Yosef sia l’accusa di aver rubato i mezzi dei poteri divinatori sia che quei poteri divinatori hanno portato Yosef a scoprire il furto della coppa magica? Delle due solo una può essere vera: O Yosef ha bisogno del supporto della coppa per praticare la chiaroveggenza o non ne ha bisogno.
Ibn Ezra spiega il problema facendo notare che il termine “lenachesh” usato in questi versetti può significare che Yosef usa il calice per mettere alla prova i suoi fratelli, per sapere se sono ancora inaffidabili o meno, a distanza di tutti questi anni. Ma, spaventati come sono, i fratelli rimangono ignari di ciò che succede davanti ai loro occhi: Yosef è ancora vivo, e il denaro che riappare misteriosamente nei loro sacchi non è una punizione di D-o, ma piuttosto un vantaggio per loro, un indizio tra gli altri indizi che potrebbe condurrli alla verità se solo avessero sufficiente presenza di spirito per prestare attenzione ai segni evidenti che si susseguono in tutta la narrazione di queste Parashot.
Nel Talmud (Taanit 21a) leggiamo un racconto stranamente simile riguardante Nachum Ish Gamzu, un ebreo tzadik inviato presso i romani per evitare la distruzione perché abile nei miracoli (“melumad be-nisim”). Recandosi a Roma porta con se una fortuna in gioielli. Il suo scrigno del tesoro però viene depredato durante il viaggio e riempito di sabbia e terra da persone senza scrupoli durante una sosta in una locanda. Quando arriva davanti all’imperatore romano, Nachum Ish Gamzu si rende conto dello scambio che è stato compiuto, e reagisce con la frase che gli è valsa il soprannome: “gam zu le-tovà” – anche questo è per il bene. Piuttosto che provare rabbia contro D-o, Nachum Ish Gamzu confida che il bene vincerà. Miracolosamente, il Profeta Eliahu salva Nachum e tutti gli ebrei.
Forse questa è una lezione che possiamo imparare da Yosef e dai suoi fratelli, da Lavan e Yaakov e da Nachum Ish Gamzu: Il messaggio di queste storie è che dobbiamo prestare maggiore attenzione ai risultati che derivano della rettitudine nei comportamenti e nelle nostre parole, ai veri valori come il valore della famiglia e del bene della collettività. Forse sarebbe stata diversa la schiavitù in Egitto se i fratelli di Yosef non si fossero destinati alla schiavitù con le loro parole? Quanti anni di dolore e lacrime sarebbero stati risparmiati a Yaakov se non avesse inconsapevolmente condannato a morte la sua moglie preferita (e la madre di Yosef), Rachel, con le sue parole quando Lavan lo accusò di aver rubato i suoi idoli? Cosa sarebbe successo se avessimo imparato a rispondere alle difficoltà con le parole di Nachum Ish Gamzu, “anche questo sarà per il bene?” imparando che le difficoltà ci offrono un’altra opportunità per praticare e promuovere ciò che è giusto? Allo stesso modo possiamo vedere la vittoria dei Maccabei immaginando che l’abilità militare sia ciò che conta, oppure possiamo imparare a vedere attraverso le chiare indicazioni in quello che accade nella vita di ogni giorno di ognuno di noi che nonostante le battute d’arresto e gli ostacoli lungo la strada, che ciò che conta di più non è il fatto in se, ma che quanto accade serve a crescere, a spronarci a tirare fuori il meglio di noi stessi. Le prove tremende che hanno dovuto affrontare queste persone, attraverso la narrazione di quello che è accaduto e di come questo abbia portato ad una crescita spirituale, ci servono da insegnamento per imparare ad approcciare la nostra vita cambiando il paradigma delle nostre azioni e dei nostri pensieri quotidiani. Solo così arriveremo ad essere persone migliori, ad educare i nostri figli, a formare nuovi leader e a contribuire in maniera costruttiva a costruire qualcosa di positivo per tutti.

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